"la foto mi guardava. quella vicinanza mi ipnotizzava, ne ero addirittura spaventata. non sapevo nemmeno dove si trovasse krasnoarmijs`k, eppure quell`uomo era li` davanti a me, fin troppo vicino, e mi soffiava in faccia il fumo della sua sigaretta". per anni, katja petrowskaja si e` cimentata in un genere tanto antico quanto arduo, l`ecfrasi: non gia` di dipinti, ma di fotografie. fotografie in cui si e` imbattuta in una mostra, in un libro, in un mercato delle pulci; fotografie d`autore o riaffiorate dal suo archivio personale. fotografie, sempre, dalle quali si e` sentita scrutata, indagata, interpellata - come nel caso del minatore del donbass avvolto dal fumo di una sigaretta. in un`epoca in cui dalle immagini siamo sopraffatti - tanto che, per sbarazzarcene in pochi istanti, abbiamo imparato a farne lo scrolling -, la petrowskaja ha scelto l`audace via dell`osservazione lenta e minuziosa, l`unica in grado di spiegare l`attrazione che suscitavano in lei, e insieme di renderle parlanti, di svelarne segreti, di ricostruire la realta` che circondava quel lembo in apparenza inerte di vita, di trasformarle in storie. storie che hanno spesso a che vedere con la storia, con le "date che continuano a mordere", con le ferite immedicabili del novecento, con le speranze infrante e le fedi vanificate dal tempo. le fotografie scelte dalla petrowskaja - dalla piccola mira sopravvissuta al ghetto di varsavia alla "triste poesia" dell`america fissata da robert frank, dalle restricted areas dell`unione sovietica al portone della lubjanka incendiato nel 2015 da petr pavlenskij - scrutano, indagano, interpellano noi tutti, e la loro ecfrasi si rivela racconto. |