e poesia - quella di garufi - che scaturisce dallo strappo e dal dolore, e che non rinuncia a quel dolore universale su cui s`interroga e a cui cerca di dare risposta, che e` poi la risposta stessa della ragione di scrivere: "ma tu, esiliato scriba, a chi dedichi/ il tuo canto e perche`?/ e la domanda onnipresente/ che mi faccio e che rivolgo/ alla pagina alla sua frontiera/ contro lo scorrere dei corpi martoriati/ delle case senza voci dei soffocati/ gemiti e guardo e scrivo/ di quelle mani tese, cosi` in alto.../ (e il mio cruccio e` il vero pianto)". dove - al di la` dell`indignazione che pure si affaccia, e che rende meno aggiuntive le crudeli, secche e icastiche poesie del disamore - c`e` da notare almeno la condizione d`esilio in cui il poeta si colloca, insieme con l`abbraccio comunitario (la comune ferita), il fondativo interrogarsi e interrogare, l`iconica raffigurazione (vagamente espressionistica) delle "mani tese" in quell`alzata sospensiva (le frequenti aposiopesi di garufi sono gli indizi di una umanissima ma non crepuscolare, se non in senso non banalizzabile, "perplessita`"), e infine il notevole enjambement "soffocati/gemiti" a incidere, se si puo` dirla cosi`, un ossimoro voltato in visione: e persino in religiosa visione. |